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LA CONDIZIONE FEMMINILE OGGI


Femminismo la fede nell'uguaglianza sociale,

Storia del femminismo

Sinossi

Il movimento femminista italiano è nato nei primi anni '70 ed è esploso dal 1974 al 1978. Da allora ha preso una tendenza inversa: c'è una crisi di militanza. Le femministe più anziane si sono in qualche modo ritirate nelle proprie vite private o in attività culturali. È iniziata una nuova fase di ricerca e autoanalisi. I primi obiettivi del movimento (attuazione e difesa della legge sull'aborto, legislazione sulle pari opportunità, lotta alla violenza) sono entrati a far parte del patrimonio delle tradizionali organizzazioni femminili e delle donne nei partiti politici laici.

Che fine ha fatto il femminismo italiano?

L'umanista del Rinascimento Laura Cereta deve rotolarsi nella tomba. Più di 500 anni dopo che la bresciana ha contribuito a gettare le basi per il femminismo moderno difendendo il diritto delle donne all'istruzione, l'Italia è tra le più basse dell'UE per l'uguaglianza di genere. I numeri sono cupi. 

Il sussistere di innegabili disuguaglianze ha di fatto messo in luce l’insufficienza del riconoscimento dell’uguaglianza puramente formale e ha indotto le istituzioni governative a intraprendere programmi d’azione e politiche per le pari opportunità tra donne e uomini. Le due principali strategie di quello che è stato chiamato ‘femminismo di Stato’, il mainstreaming e l’empowerment, sono state definite nella Conferenza di Pechino del 1995, indetta dall’ONU. Il primo mira a produrre una profonda trasformazione nella cultura di governo, inserendo la prospettiva di genere nella ‘corrente principale’, cioè all’interno di tutti i problemi rilevanti, come la qualità dello sviluppo e le grandi riforme sociali. Il secondo prevede l’attribuzione di maggiore potere alle donne rimuovendo gli ostacoli alla loro attiva partecipazione a tutte le sfere della vita pubblica e privata. Strumento di queste strategie sono le ‘azioni positive’, misure concrete adottate per accelerare l’instaurazione dell’uguaglianza di fatto tra i generi. In particolare, la persistente marginalità della presenza femminile nei parlamenti e nelle cariche pubbliche ha indotto a proporre l’adozione di azioni positive per raggiungere una pari rappresentanza di donne e di uomini in tutte le cariche governative. A tal fine si richiede una riforma dei meccanismi elettorali per integrare le donne nelle cariche pubbliche in proporzioni uguali e agli stessi livelli degli uomini. In Italia nel 2003 è stata approvata una modifica dell’art. 51 della Costituzione per legittimare tutti i provvedimenti finalizzati a garantire la partecipazione paritaria di uomini e donne alle cariche elettive, in esito alla quale sono stati avviati interventi per la promozione delle pari opportunità quali il Codice per le pari opportunità (d. legisl. 11 aprile 2006, n.198) e la normativa sulle quote di genere, tra cui la l. n. 120/2011 (che ha introdotto regole volte ad assicurare e incrementare la rappresentatività femminile nella composizione degli organi di amministrazione e controllo delle società con azioni quotate e delle società a controllo pubblico, imponendo che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei componenti di ciascun organo) e la l. n. 215/2012 (che ha promosso il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali) e la legge n. 165/2017 (che prevede prescrizioni nella presentazione delle candidature volte ad assicurare l’equilibrio di genere nella rappresentanza politica). L’importanza delle questioni relative alla parità di genere è stata ribadita in Italia nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) approvato nel luglio 2021 dalla Commissione europea, che prevede  investimenti diretti a favorire l’occupazione femminile e stanziamenti, volti a ridurre gli ostacoli alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, mentre nel 2022, decidendo sulla propria ordinanza di auto remissione n.18/2021 con cui aveva ritenuto pregiudiziale valutare la costituzionalità della regola di assegnare al figlio il solo paterno cognome paterno (condannata nel 2014 dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e dichiarata incostituzionale in presenza di una diversa volontà dei genitori già nel 2016), la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima tale regola, stabilendo che il figlio assuma il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano di comune accordo di disporre diversamente.

 

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